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12 gennaio 2005 > Il mosaico vivente della memoria, “il Manifesto”

Il mosaico vivente della memoria

di ROSSANA ROSSANDA

Chi ha memoria diretta del 1943-1945 – nel 2005 non siamo rimasti in molti – riconosce persone e pensieri e frammenti di sé nelle dieci biografie di antifascisti e partigiani a Venezia nel volume, prodotto da quell’Istituto storico della resistenza, Nella resistenza.
E tuttavia si sente bizzarramente in quella messa sotto accusa che Sergio Luzzatto descrive nel suo recente La crisi dell’antifascismo. Che vada perdendo di senso un periodo per chi non l’ha vissuto è normale, e fin vitale. Ma l’acredine di questi anni tradisce che l’antifascismo non è archiviato, né in una memoria autentica e divisa, né nella «memoria condivisa» che vorrebbero i nostri Presidenti. Brucia ancora. Alla lacerazione degli anni Venti e Trenta, quando fu fascista gran parte d’Europa, si tenta di dare ancora dignità. Se molti padri della patria sopravvissuti alle galere e alla guerra avevano generosamente ammesso che, il fascismo non essendo più all’ordine del giorno, l’antifascismo cessava di essere un valore discriminante, la campagna odierna ne investe la validità non per oggi ma per ieri. Non sarebbe mai stato un valore. A chi oggi dà fastidio? Gli stessi ex fascisti, oggi parte del governo, avevano sentito il bisogno di qualche lavacro dal passato.
Ormai è una vicenda lunga e perfino noiosa. A cominciare era stato Renzo De Felice, con la tesi che, pallida imitazione del nazismo, il fascismo non è stato gran che e l’antifascismo una fissazione di pochi, altro che Historiker Streich. Quando Claudio Pavone si è interrogato sulla sua natura, di lotta all’occupazione tedesca o anche guerra civile, affrontandone la dilemmatica morale, il Pci si è inalberato, sia perché se ne pretendeva il solo depositario sia perché preferiva sottolineare il primo aspetto, a riprova che era stato sempre una forza nazionale mirante non ad altro che alla restaurazione della democrazia. Più tardi diversi post sessantottini hanno sospettato che la resistenza fosse addirittura inventata dai comunisti per addomesticare quel che era stato un sussulto di classe. I movimenti delle donne, hanno diffidato del richiamo costituzionale all’antifascismo e al lavoro perché occultava il conflitto o la differenza fra i sessi. Infine da un paio d’anni una messa in causa implicita è venuta dalle tesi sulla non violenza, e una più che esplicita dall’enfasi data da Giampaolo Pansa alle vittime fasciste o, peggio, presunte tali, dei partigiani.

I tasselli di un puzzle

Non è una polemica sul passato. Se gli antifascisti sono stati poca cosa, la repubblica non può fondarsi sull’antifascismo. Se la resistenza è stata la copertura d’un tentativo di guerra civile comandato dai comunisti, per ordine di Mosca, è fortunatamente abortito e andrebbe maledetta, e con questo cadrebbe la legittimità delle sinistre che la rivendicano. E’ il centrodestra che intende spostare la sua molto in là e molto indietro.
La povertà di questi argomenti si verifica nella memoria reale che ogni tanto riaffiora. E’ appunto il caso della raccolta Nella resistenza a cura di Giulia Albanese e Marco Borghi, ricercatrice e direttore dell’«Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea». I due curatori, assieme a Alessandro Casellato, Giovanni Sbordone, Nadia Filippini e Maria Teresa Sega (che le lettrici conoscono anche per la storia delle donne), tutti giovani, si tuffano nella memoria di dieci viventi, che non sono stati i soli resistenti nel Veneto, ma la generazione allora più giovane, nata subito prima o dopo il 1920.
Il primo si racconta da sé, Cesco Chinello (1925), altri sono intervistati, come l’ancora più ragazzo Mario Osetta (1926) e appena più anziano Livio Maitan (1923). Seguono i tre fratelli Trentin, Giorgio (1917), Franca (1919) e Bruno (1926) figli di Silvio, proveniente dall’esilio in Francia e dal movimento Fédérer et Libérer. Michele (1924) e Giorgio (1926) Bellavitis hanno una formazione cattolica. Infine Rina (Regina) Nono (1921), sorella del musicista, e Albano Pivato (1921), si sono conosciuti, e si sarebbero sposati, lavorando per una rete di comunicazione a supporto degli alleati a Venezia.
Sono squarci di un mosaico che si delinea perlopiù dal 25 luglio all’8 settembre – fra ragazzi ancora freschi di scuola in cerca di capire e agire in gruppi, idee e partiti febbrilmente in formazione. Si raccolgono, organizzano le prime azioni, in città volantini, propaganda e raccolta di mezzi, in regione nelle brigate partigiane. Incontrano soprattutto, ma non sempre, il Partito comunista, quello socialista e Giustizia e Libertà. Tutti molto compartimentati. Per alcuni quella esperienza si protrarrà in scelta di vita, per altri resterà un folgorante ricordo.
Cesco Chinello è di quelli che la prolungano nella militanza comunista, diventerà un dirigente del Pci sperimentandone il momento più felice negli anni Sessanta e primissimi Settanta; poi, emarginato, farà un immenso lavoro di raccolta, ricerca ed elaborazione delle lotte a Venezia. Né il Pci in declino né i ds, intenti a esorcizzare il passato, vi faranno attenzione e tanto meno uso: le prime sue carte passate fiduciosamente all’Istituto Gramsci, Chinello le vedrà un giorno per terra ai bordi d’una fondamenta. La sua ricostruzione degli inizi riflette con scrupolo l’asprigno di quella che è anche una ricerca di sé in una Venezia raggelata, due inverni di occupazione, oscuramento, Ss e milizie, fucilazioni, silenzio nelle calli e una barca sul canale per tagliare la corda. E’ lo stesso sfondo de Il terrorista di Gianfranco de Bosio. Città troppo torpida, pensano questi giovani, e rischieranno una fulminante uscita dalla clandestinità irrompendo, dopo avere bloccato le uscite, sul palcoscenico del teatro Goldoni dove va in scena un Pirandello, facendo arretrare gli attori e leggendo (Cesco) alla platea sbalordita un proclama antifascista e antitedesco.
La medesima Venezia esce dalla memoria di Mario Osetta, che si era collegato con la leggendaria «Biancotto», e risponde a un’intervista ripescando ricordi col piglio scanzonato di quando era il più ragazzo e il più spericolato, con l’ironia del popolano che non la prende mai sul serio. Dopo la guerra sarà operaio alla Breda poi tecnico e sindacalista. Ricorda con spirito e una nostalgia, cui il pensoso Chinello non ha concesso molto. Deludente invece rispetto al suo libro (La strada percorsa, Massaro, 2002) la breve testimonianza di Livio Maitan, spentosi pochi mesi fa; sarà il campo in Svizzera il luogo della sua vera formazione.
Non vengono dal popolo né hanno dovuto cercare lontano i tre fratelli Trentin, il cui padre, Silvio, era dovuto andare esule in Francia e rientrava in Italia nel 1944 per battersi nel suo Veneto d’origine. Ma era malatissimo e si sarebbe spento a Monastier presso Treviso, senza vedere la liberazione. Dei tre figli, Franca, nata fra Giorgio e Bruno, era stata lasciata a Tolosa per portare avanti la libreria del padre, centro di incontro degli antifascisti francesi. E a Tolosa Franca ne combina una più del diavolo, ma non ne mena vanto: a distanza si vede troppo figlia, troppo condizionata dal comando paterno, non ha nostalgie e scalpita: «E a 28 anni che ho cominciato a scegliere da sola». Bella, giovanissima, verginissima come allora usava, il ritratto che ci rimanda oggi la vecchia signora indomita ha un tocco, le visualità dei volti e delle situazioni che i ricordi degli uomini non hanno. Non quelli di Giorgio, il più pacato e distante, che non ha trascorso la vita di studioso e bibliofilo rivangando quegli anni, e qualche passaggio si è perduto nella sua memoria senza nostalgia né affanno.

Tra guerra e vendetta

Bruno era il più piccolo e irrequieto, si è fatto arrestare già nel 1942 in Francia mettendo a repentaglio il padre che aveva un incarico importante con Londra, viene liberato, poi di nuovo mandato in campo di concentramento. Nel marzo 1944, venuto con i suoi in Italia, è promosso nel gruppo dei grandi (non ha ancora 18 anni), e sarà quello il vero e felice incontro con il padre, quello in cui gli uomini si trasmettono il comando. Lavora e si batte nella galassia attorno a Giustizia e Libertà, tra Venezia, Treviso, e la mitica università di Padova, quella dei Marchesi, Valgimigli, Cessi, Fiocco, Valeri (a proposito ci resta una curiosità: a tirar giù dal palco il gerarca durante la celebre inaugurazione dell’anno accademico 1943 fu il piccolo Marchesi o l’aitante Meneghetti?). Poi, nel Friuli con la formazione «Italia Libera», sarà la guerra aperta, il massacro del rastrellamento tedesco sul Grappa e i partigiani appesi ai ganci da macellaio a Bassano. Poi Bruno opererà per il Cln Alta Italia a Milano, con Valiani.
Le sue risposte a Giulia Albanese sono secche, precise, nessuna nostalgia, è il solo a evocare i rapporti non semplici fra generazioni e difficili fra partigiani e militari che credono ancora di comandare. E il solo ad evocare l’impatto con la violenza, la voglia di sangue che stinge anche in chi l’ha subita. Nel Friuli non è il conflitto oscuro, improvviso, veloce dei gruppi clandestini in città, che hanno negli occhi i fucilati di ca’ Giustinian ma ogni volta esitano a sparare, per cui nei giorni della Liberazione i più dei fascisti se la cavano con «un calcio in culo». Fuori è guerra e anche vendetta, crudele. Bruno ne è sgomento. Dei tre è il più severo, Franca la più inquieta, Giorgio il più saggio. Stesso padre, stessa madre troppo straordinari – quando vengono ad arrestare Bruno ancora ragazzo, la madre gli ha mollato un ceffone, come se fosse inorridita, per proteggere il marito.
Sui due fratelli Bellavitis piombano anche casualità feroci – su Michele, che stava nella brigata Osoppo e ne ha conosciute le lacerazioni, piomba la cattura e la deportazione a Buchenwald. Due anni di campo. Chi vi è passato ne è segnato per il resto dell’esistenza. Anche loro hanno avuto una madre amica e che ha traversato intrepida a piedi colli e pianure. Chiudono la serie Rina Nono e Albano Pivato. Rina, che ha avuto un nonno risorgimentale, ha un mucchio di ricordi nitidi e ironici: il nome di battaglia di Pivato, con il quale flirta, è «il duca», e quando Radio Londra trasmette in codice «Il duca saluta Rina» (cioè: stiamo per fare un lancio) le pare che tutti le ridano dietro. Indimenticabile il personaggio elegante che si crede misterioso e fa remare per ore la ragazzina senza muovere un dito per arrivare in terraferma. Se il racconto di Pivato è più ordinato, quello di Rina più ricco, denso di persone e fatti bizzarri (lui si salva fingendo di entrare nella X Mas) e dei vezzi della memoria, sulle cui lacune i vecchi spiritosi amano giocare. Ma di colpo, quando arriva la liberazione, alla Rina sfugge un: «E poi non è successo più nulla».
Queste dieci persone a volte si sono intersecate a volte no. A volte avevano avuto una dritta in famiglia, a volte no. Bruno Trentin, Cesco Chinello, Mario Osetta hanno proseguito quelle esperienze nei partiti o nel sindacato; Franca è segnata dal femminismo. Altri hanno avuto con la politica un rapporto più problematico o interrotto. Come distinguere, in quel che hanno vissuto dal 1943 al 1945, fra guerra, resistenza, guerra civile? E’ una domanda che può farsi soltanto chi non c’era.

 

“il Manifesto”, mercoledì 12 gennaio 2005

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